Una guerra sanguinaria (senza fine) tra Israele e Palestina. Dalla “Nakba” del 1948 ai giorni nostri con Hamas, passando per l’indipendenza dello Stato di Palestina, gli accordi (falliti) di Oslo e tutte le questioni ancora irrisolte.
- Israele-Hamas, 7 Ottobre 2023
- Cenni storici della questione palestinese
- Occupazione dei territori palestinesi – Nakba
- Accordi di Oslo tra Israele e OLP
- L’ascesa di Hamas
- Cronologia della guerra Israele-Hamas del 7 ottobre 2023
- Hamas, dopo una disfatta militare, potrebbe essere sconfitto solo dal voto dei palestinesi
- I crimini di guerra di Israele e di Hamas
Israele-Hamas, 7 Ottobre 2023
L’attacco di Hamas a Israele il 7 ottobre 2023, con l’“operazione alluvione Al-Aqsa” (in arabo: عملية طوفان الأقصى, ʿamaliyyat ṭūfān al-ʾAqṣā), nel giorno del cinquantesimo anniversario dello scoppio della guerra del Kippur o guerra del Ramadan del 1973, ha innescato una drammatica escalation al conflitto (cronico) israelo-palestinese, riportando al centro dell’attenzione internazionale la questione palestinese. L’intento è porre fine alle “violazioni israeliane” ovvero quello che i palestinesi definiscono “la profanazione dei luoghi santi a Gerusalemme” e il costante rifiuto da parte di Israele di liberare i prigionieri palestinesi (oltre 7.000 sono i detenuti nelle carceri israeliane). Ma come ulteriore effetto vuole congelare, come di fatto è avvenuto, lo schema degli Accordi di Abramo che stava per culminare nella normalizzazione delle relazioni diplomatiche fra Arabia Saudita e Israele.
L’offensiva è avvenuta contro diverse città israeliane attraverso incursioni via terra con oltre 2500 guerriglieri Palestinesi e raid aerei. Hamas ha ucciso brutalmente, in quel giorno, secondo il quotidiano israeliano Haaretz, circa 1.200 persone, tra cui almeno 28 bambini, catturando circa 240 ostaggi, tra cui almeno 33 bambini.
Israele, in seguito dell’attacco di Hamas, ha formalmente dichiarato guerra avviando una controffensiva armata denominata “Operazione Spade di Ferro, prima con raid aerei contro l’enclave costiera palestinese e poi, a venti giorni dal 7 ottobre, con un’incursione di terra su larga scala nella Striscia di Gaza e bloccando le forniture di cibo, acqua, elettricità, carburante, farmaci e forniture mediche. Gli obiettivi di guerra dichiarati dal primo ministro di Israele Benjamin Netanyahu בנימין נתניהו, sono: riportare a casa tutti i sequestrati e sradicare Hamas dai 365 chilometri quadrati della Striscia di Gaza. Questo secondo punto sembra molto più arduo in quanto Hamas è anche una visione culturale che alberga nelle menti di molti Palestinesi. Sconfiggerlo solo militarmente forse non basterebbe.
L’escalation militare ha generato immediatamente nella comunità internazionale grande preoccupazione, anche per la carneficina che si sta consumando a Gaza ai danni di civili inermi, con il rischio di una estensione ben oltre il contesto regionale del conflitto.
In 53 giorni di conflitto, il bilancio delle vittime dei bombardamenti israeliani su Gaza e delle successive operazioni di terra è di quasi 15mila (tra cui più di 5.600 bambini), 36.000 feriti, secondo l’Ufficio delle Nazioni Unite per gli affari umanitari (OCHA), mentre 1,76 milioni di Palestinesi sono rimasti senza tetto e oltre 46.000 case a Gaza sono state distrutte. Dei 36 ospedali di Gaza, 26 non funzionano secondo L’Organizzazione Mondiale della Sanità
Una vera crisi umanitaria in corso a Gaza, dove ben oltre due milioni di persone lottano per la sopravvivenza.
Alcune parti del governo locale in Cisgiordania, dove vivono quasi tre milioni di palestinesi, sono gestite dall’Autorità nazionale palestinese. Tuttavia, Israele mantiene la responsabilità dei confini e della sicurezza e i suoi cittadini si sono insediati nell’area in numero crescente. Secondo l’OCHA, al 15 novembre, 183 palestinesi sono stati uccisi dalle forze di sicurezza israeliane in Cisgiordania dal 7 ottobre, portando il bilancio delle vittime per il 2023 a 427. Secondo le Nazioni Unite, tre israeliani sono stati uccisi in attacchi da parte di palestinesi. Il 9 ottobre, il Dipartimento israeliano per le licenze sulle armi da fuoco ha lanciato quella che ha definito “un’operazione di emergenza per consentire al maggior numero possibile di civili di armarsi”.
Cenni storici della questione palestinese
Il conflitto Israele Palestina, un conflitto etno-nazionale, in un contesto internazionale in continuo mutamento, è rimasto nei decenni una costante. Al centro della questione la rivendicazione del diritto alla Palestina, una terra considerata allo stesso tempo, già verso la fine del XIX secolo, dal movimento sionista come patria storica del popolo ebraico, e dal movimento nazionalista palestinese come territorio appartenete ai suoi abitanti arabi palestinesi.
Occupazione dei territori palestinesi – Nakba
La fase principale del conflitto su larga scala tra Israele e gli Stati arabi ebbe luogo con la proclamazione dello Stato di Israele nel 1948.
L’anno prima della sua fondazione, nel 1947, le Nazioni Unite produssero con la Risoluzione 181, un Piano di partizione della Palestina che proponeva di dividere il tratto di terra dal fiume Giordano al Mar Mediterraneo in due stati, uno Stato ebraico e uno arabo. Il piano viene accolto con favore dagli ebrei e respinto dai paesi arabi circostanti, così come dai palestinesi che vivono sulla terra. E il 15 maggio, un giorno dopo che Israele si è dichiarato Stato, quattro paesi arabi hanno attaccato. Gli ebrei israeliani videro la guerra che ne seguì, che vinsero, come una lotta esistenziale per la sopravvivenza, una lotta che arrivò solo pochi anni dopo l’Olocausto. Per i palestinesi, il 1948 segnò la Nakba (che significa “catastrofe” in arabo), in cui 700.000 persone furono espulse con la forza dalle loro case.
Le famiglie portavano via ciò che potevano trasportare o venivano spediti in camion, dalle loro case alle aree al di fuori del nuovo Stato di Israele.
Commemorazione del 75° anniversario della “Nakba”
In sostanza ci fu lo “sfollamento di massa” dei palestinesi dalla terra che sarebbe diventata Israele, trasformando così dalla sera alla mattina, 700.000 palestinesi in rifugiati. Molti andarono in Cisgiordania, dove la Giordania prese il controllo, o nella Striscia di Gaza, occupata dall’Egitto. La situazione dei rifugiati palestinesi rimane, a distanza di 76anni, la più lunga crisi irrisolta al mondo.
“Il ricordo della Nakba rimarrà; continuerà a motivare il nostro popolo a porre fine all’occupazione”, ha detto Abbas, conosciuto anche come Abū Māzen (in arabo مَحْمُود عَبَّاس?), presidente ANP, OLP e dello Stato di Palestina. “L’occupazione finirà. La destra palestinese prima o poi prevarrà, in modo che la pace possa prevalere nella nostra regione e nel mondo”.
Del piano di partizione della Palestina nel tempo è stato oggetto di studi di diversi storici. Riportiamo, per chi volesse approfondire, l’interessante articolo “A 76 anni dalla partizione della Palestina”dello storico Lorenzo Kamel, professore associato di Storia contemporanea all’Università degli Studi di Torino.
Alcuni punti che ci sembrano degni di nota sono stati riportati di seguito:
– [La componente ebraica presente nel 1947 nell’area compresa tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo rappresentava circa il 30% del totale e possedeva approssimativamente il 6,7% della terra. Mentre lo Stato ebraico veniva costituito sul 54,47% del totale dell’area compresa tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo;
– larga parte della componente ebraica era costituita da immigrati approdati in Palestina in anni recenti, al contrario i palestinesi inglobavano nel lasso temporale antecedente al 1947, solo una piccola minoranza di persone giunte sul posto;
– circa i 4/5 delle terre coltivate a grano, il 40% della rudimentale industria e la totalità delle terre coltivate ad agrumi si sarebbero trovate all’interno del perimetro di terra destinato alla costituzione di uno “Stato ebraico”. Mentre ai palestinesi veniva destinato un territorio per lo più collinare;
– la risoluzione 181 veniva approvata nel 1947 non già con la partecipazione degli attuali 193 Paesi membri della Nazioni Unite, ma soltanto da 56 nazioni, di cui solo 33 si espressero con voto favorevole. Tra queste sono compresi gli Stati del Centro e Sud America, Paesi satellite degli Stati Uniti, dal quale dipendevano economicamente; la Polonia, la Cecoslovacchia e tutti quegli Stati che “ospitavano” le truppe delle grandi potenze che li avevano liberati, ovvero Stati Uniti e Unione Sovietica. Un quadro complesso e controverso fatto da potenze occidentali (esclusa la Gran Bretagna) e di Paesi ad esse subalterne e l’Unione Sovietica che decisero senza tenere conto del parere e soprattutto dei diritti dei palestinesi;
– a causa “del rifiuto arabo” legato al piano di spartizione proposto dall’Onu nel 1947, scoppiò un conflitto nel corso di esso circa 770 mila palestinesi “fuggirono da ciò che è oggi Israele”; nella stessa fase storica, circa 800mila ebrei che vivevano in Paesi arabi subirono “espulsioni di massa”; si sarebbe dunque verificato una sorta di “scambio di popolazione” tra “rifugiati arabi e rifugiati ebrei”. I palestinesi sarebbero dunque tenuti ad accettare tale ‘reciprocità’, rinunciando ad avanzare richieste legate a possibili risarcimenti o restituzioni. Mentre gli ebrei vittime di discriminazioni e di brutalità in alcuni Paesi arabi avrebbero pieno diritto ad avanzare rivendicazioni…
– migliaia di palestinesi trovarono rifugio, durante e a seguito della guerra del 1948, in Paesi limitrofi: a larga parte di queste persone è stato proibito, quantomeno fino a un recente passato, di ottenere una cittadinanza e di praticare un ampio numero di professioni. E i leader arabi hanno spesso sfruttato tale sofferenza per i propri tornaconti politici. Ci furono anche campi di transito per i profughi ebrei costruiti negli anni 50’, ma con un particolare: che l’ultimo venne chiuso nel 1963. Era venuta meno l’esigenza di ospitare gli ebrei che, nel frattempo, gran parte dei casi, andò a vivere nelle case che erano state in precedenza “svuotate” (con la forza e non certo per un atto di libertà) dai loro abitanti palestinesi. Tale precisazione si rende necessaria per chi volesse tentare di equiparare i campi di transito degli ebrei con i campi profughi palestinesi;
– Insomma mentre gli ebrei immigrati in Israele da molteplici Paesi arabi e non solo hanno trovato una Terra e spesso anche una casa pronta per essere abitata, la popolazione palestinese, in una significativa percentuale pari a 1,5 milione di individui (mentre altri 4,1 milioni di profughi non sono residenti in campi profughi), vive ancora oggi in campi composti da rifugiati di seconda, terza o quarta generazione, e non ha avuto mai un’“altra Palestina” che fosse pronta e che avesse i mezzi necessari per accoglierli e assorbirli in massa].
Nel 1967 quando l’Egitto mobilitò le truppe al confine, Israele lanciò attacchi aerei preventivi, e in una guerra combattuta in sei giorni contro una coalizione di stati arabi, Israele prese il controllo del territorio conteso, iniziando un’occupazione militare dei territori palestinesi (Striscia di Gaza, Cisgiordania, compresa Gerusalemme Est) con spietate politiche di confisca delle terre, costruzione degli insediamenti ed espropri, infliggendo immense sofferenze ai palestinesi e violando i loro diritti fondamentali. Molti palestinesi, che vivevano sotto occupazione o come rifugiati in tutto il mondo, vedevano ancora la fondazione di Israele come un atto di espropriazione che li aveva derubati della loro terra e delle loro case. Da allora, in oltre mezzo secolo di sistematica occupazione israeliana, gli arabi palestinesi rivendicano il diritto a uno stato indipendente nei territori occupati, mentre gli israeliani continuano a sostenere che la Palestina, per motivi storici e “divini”, sia la loro patria.
Una serie di guerre arabo-israeliane caratterizzò il periodo 1948-1973: la guerra di Suez del 1956 e la guerra del Kippur del 1973, oltre le già citate guerra del 1948 e guerra dei sei giorni del 1967. Nel 1979 accordi di pace sono stati firmati tra Israele ed Egitto e nel 1994 tra Israele e Giordania, trasformando così negli anni il conflitto arabo-israeliano su larga scala in un conflitto israelo-palestinese (anche detto questione palestinese) più localizzato e incentrato sul reciproco riconoscimento di indipendenza e sovranità dello Stato di Israele e dello Stato di Palestina. Anche tale conflitto è stato caratterizzato da una serie di guerre tra israeliani e organizzazioni palestinesi come l’OLP e Hamas: la guerra del Libano del 1982, la Prima e Seconda Intifada e numerose guerre nella striscia di Gaza.
Il 15 novembre 1988 Yasser Arafat, Presidente dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP), proclamò unilateralmente in un discorso tenuto ad Algeri l’indipendenza dello Stato di Palestina (con capitale Gerusalemme), e nel dicembre Arafat riconosceva esplicitamente Israele di fronte all’Assemblea generale dell’ONU. Entro la metà del 1989 lo Stato di Palestina (del quale Arafat fu eletto presidente) era stato riconosciuto da oltre 90 nazioni.
Accordi di Oslo tra Israele e OLP
Nel 1993, con la firma degli Accordi di Oslo, tra il governo israeliano e l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina, come parte di un processo di pace che mirava a risolvere il conflitto arabo-israeliano, fu istituita l’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) per autogovernare, in modo limitato, parte della Cisgiordania e la striscia di Gaza; mentre l’OLP venne riconosciuto come partner di Israele nei negoziati sulle questioni in sospeso. Nonostante i negoziati proseguirono con gli accordi di Oslo 2 nel ’95, non portarono a nessuna pacificazione tra le parti. L’espansione degli insediamenti ebraici in Cisgiordania a e Gaza, da un lato, e il crescente ricorso al terrorismo contro la popolazione israeliana da parte dell’organizzazione fondamentalista palestinese Hamas, dall’altro, azzerarono i progressi fatti nei negoziati tra le parti. Scoppia la Seconda Intifada, che ha bloccato ogni vero sforzo di pace.
Le questioni più importanti sono rimaste irrisolte: i confini di Israele e Palestina; gli insediamenti israeliani sono ritenuti illegali dal diritto internazionale, eppure restano lì, anzi aumentano (la popolazione ebraica nei Territori occupati, compresa Gerusalemme Est palestinese, è aumentata, trent’anni dopo Oslo, del 332%, fino a 695.000 coloni), lo stesso Netanyahu fa delle colonie un tratto distintivo della sua politica al punto che l’anno scorso, dopo la riconferma al governo, non solo ne legalizza una decina, ma rinnova il permesso di costruirne altre, e come se non bastasse ha permesso al ministro delle finanze Bezalel Smotrich (leader della destra radicale di Sionismo religioso), di far approvare un budget di emergenza per il conflitto per distribuire milioni di dollari oltre alle scuole ultraortodosse, anche alle colonie per rispondere alle esigenze dei coloni oltranzisti e messianici che il ministro rappresenta; la presenza militare di Israele nei territori palestinesi (a proposito dell’esercito israeliano, mai Israele ha parlato di ritiro, ma solo di ridistribuzione, di nuovo schieramento…), il muro di separazione, i profughi, e cosa peggiore è che non c’è stato mai un vero incontro delle menti delle due parti su ciò che serviva per raggiungere la pace: gli israeliani non volevano uno stato palestinese, mentre i palestinesi erano convinti che gli israeliani non avrebbero mai dato loro l’indipendenza.
In fondo gli israeliani si sono sempre illusi di poter ignorare l’esistenza dei palestinesi.
Ovviamente tra le cause dell’insuccesso degli accordi non manca chi punta il dito anche verso i palestinesi incapaci di uscire dalle loro gabbie in modo creativo, troppo presi a sopravvivere a un’occupazione israeliana sempre più brutale, e verso la mediocrità della classe dirigente palestinese isolata da molti paesi arabi che prima la sostenevano. Per non parlare degli americani, diventati i soli mediatori, i quali davano sempre priorità alle ragioni israeliane, lasciando in secondo piano quelle dei palestinesi. Insomma trent’anni di fallimenti di un evento venduto al mondo come l’inizio della pace in Medioriente. Tuttavia, se e quando, gli israeliani e i palestinesi decideranno di vivere l’uno accanto all’altro potrebbero ripartire da Oslo per riprendere le cose dove erano state lasciate.
In seguito, tra il 2000 e il 2005, le continue ‘chiusure’ militari israeliane della Striscia che impedivano il regolare funzionamento della vita lavorativa dei numerosi palestinesi che si recavano in Israele, creava una crisi economica sempre più preoccupante.
L’ascesa di Hamas
Nell’agosto 2005 il primo ministro israeliano Ariel Sharon decise di smantellare unilateralmente le basi militari e le numerose colonie ebraiche realizzate nella Striscia nel corso dei decenni successivi all’occupazione (21 colonie con circa 8200 abitanti), mettendo fine all’amministrazione militare. L’anno seguente, le elezioni politiche in Cisgiordania e a Gaza facevano registrare il successo elettorale del partito politico palestinese di Hamas, capace di raccogliere consensi sia tra le fasce meno abbienti della popolazione, sia tra gli studenti universitari e i ceti emergenti. Tuttavia Hamas, che è anche una organizzazione paramilitare islamista, sunnita e fondamentalista, poiché non disposta a rinunciare ai suoi proclami sulla distruzione dello Stato ebraico, non trova l’appoggio a formare un nuovo governo di unità nazionale da parte di al-Fatàh, fino ad allora la più forte organizzazione politica palestinese. Lo scontro, inevitabile tra le due organizzazioni, dopo un illusorio accordo di governo tra il 2006 e il 2007, si trasforma in una battaglia militare provocata da Hamas che vedeva sconfitta ed espulsa al-Fatàh da tutto il territorio della Striscia, mentre la stessa Hamas, la cui forza militare è potenziata dall’alleanza con gli Hezbollah libanesi e l’Iran, s’impossessava di tutti i centri di potere.
Si determinava di fatto una divisione tra Cisgiordania e Gaza; quest’ultima non riconosceva più l’autorità del presidente palestinese Abū Māzen, che rappresentava dell’universo palestinese l’anima moderata. Da allora Gaza è governata da Hamas che, a onor del vero, è considerata da vari Paesi specie del mondo Occidentale, anche un’organizzazione terroristica.
Nel 2012 l’ONU ha riconosciuto la Palestina come Stato non membro con status di osservatore permanente con la risoluzione 67/19 dell’Assemblea generale, e a seguito di ciò dal 2013 l’Autorità Nazionale Palestinese ha adottato il nome di Stato di Palestina sui documenti ufficiali.
Lo Stato Palestinese oggi è riconosciuto ufficialmente da 139 Paesi attraverso accordi bilaterali. Ci sono quasi tutti i Paesi dell’Africa e gran parte degli Stati dell’America Latina, oltre a Cina, Russia, India, Iran, Qatar, Arabia Saudita.
Tuttavia ad oggi le prospettive di pace e l’attuazione di una soluzione concordata a due Stati dei circa sette milioni di palestinesi e sette milioni di ebrei che vivono tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo, dopo decenni di guerre, ondate di violenza e molteplici processi negoziali andati a vuoto, sembrano avere poche chances all’orizzonte. Il punto è capire come possano vivere insieme in questo spazio. La cosa stonante è che in tale spazio ci sono circa cinque milioni di persone che non hanno diritti politici, mentre i diritti civili, sociali ed economici sono profondamente limitati compresa la salute. Per questo è necessario quanto urgente che gli attori internazionali intervengano in modo costruttivo per garantire quei diritti negati, e progettare una missione che possa realmente funzionare sia per ebrei che per palestinesi.
Per chi volesse ulteriore luce sulla storia di Oslo consigliamo di leggere l’articolo apparso sul New York Time Magazine che raccoglie la conversazione di un gruppo di studiosi ed esperti – tre palestinesi, tre israeliani e un americano: Oslo è stata una vera opportunità per la pace? Era condannato fin dall’inizio?
Cronologia della guerra Israele-Hamas del 7 ottobre 2023
Diverse le tappe che ripercorrono i 53 giorni di guerra Israele-Hamas. Riportiamo la cronologia elaborata dall’ ISPI – Istituto per gli studi di Politica Internazionale, che in modo esaustivo e autorevole narra tutte le vicende legate al conflitto Israelo-palestinese riacceso il 7 ottobre 2023.
Anche l’Assemblea generale delle Nazioni Unite il 27 ottobre è intervenuta approvando una risoluzione non vincolante presentata da 22 Paesi arabi, per chiedere una tregua umanitaria a Gaza: 121 voti favorevoli, 44 astenuti e 14 contrari tra cui Israele e Stati Uniti.
L’Europa, che si è compattata, anche se dopo qualche tentennamento, contro l’invasione di Putin dell’Ucraina del 2022, di fronte alla questione palestinese si è spaccata: Italia e Germania (come il Regno Unito) si sono astenute, Francia (che non solo ha una corposa comunità musulmana al suo interno a cui deve garantire diritti e che è espressione tra l’altro di milioni di voti in occasioni di competizioni elettorali specie quelle presidenziali, ma è vittima anche dall’inizio del 2015 di numerosi attentati terroristici di matrice islamica, come quello al Teatro Batclan
o alla sede di Charlie Hebdo, il settimanale satirico francese che in nome dell’inviolabilità del laicismo e all’intangibilità del diritto alla libertà di espressione continua a pubblicare le caricature su Maometto nonostante venga denunciato per blasfemia da alcune associazioni islamiche e faccia imbestialire soprattutto l’Iran) e Spagna hanno votato a favore, mentre l’Austria e l’Ungheria contro. I 14 Paesi contrari invece, oltre a Israele e Stati Uniti, sono: Austria, Croazia, Fiji, Cecoslovacchia, Guatemala, Ungheria, Isole Marshall, Micronesia, Nauru, Tonga, Papua Nuova Guinea e Paraguay. A favore della tregua l’America Latina, quasi tutta l’Africa, il mondo arabo e in blocco l’Asia con la sola eccezione dell’India che, com’è noto, nelle relazioni internazionali è molto ambigua.
Nel mentre, c’è in corso una tregua umanitaria del conflitto Israele-Hamas, inizialmente di quattro giorni, iniziata la mattina del 24 novembre, e avvenuta grazie alla mediazione del Qatar (principale mediatore e sponsor tra l’altro di Hamas), Egitto e USA. Nei quattro giorni di pausa dei combattimenti era previsto il rilascio di 50 ostaggi catturati – donne e bambini – da Hamas durante gli attacchi del 7 ottobre in cambio della liberazione di 150 palestinesi, tra donne e bambini (spesso arrestati per aver lanciato pietre contro l’esercito israeliano), detenuti nelle carceri israeliane; il rilascio di ogni 10 rapiti aggiuntivi si tradurrà in un giorno in più di tregua; Israele ha anche accettato di far entrare maggiori aiuti a Gaza (cibo, acqua, medicinali, attrezzature medicinali) attraverso il valico di Rafah. I giorni di tregua poi sono diventati 6. Finora la tregua ha portato alla liberazione 60 ostaggi israeliani, su 240 catturati da Hamas il 7 ottobre, e 180 palestinesi detenuti oltre ovviamente l’afflusso a Gaza di centinaia di camion di aiuti umanitari.
La speranza che questa breve tregua porti a un cessate il fuoco umanitario a lungo termine, a beneficio del popolo di Gaza, Israele e oltre.
Netanyahu, che questa settimana ha detto che liberare gli ostaggi è un “compito sacro e supremo”, è stato sottoposto a pressioni pubbliche per raggiungere un accordo. Questo mese, le famiglie angosciate di alcuni degli ostaggi Hanno marciato da Tel Aviv all’ufficio di Netanyahu, mostrando manifesti dei prigionieri e implorandolo di fare di più per riportare a casa i loro parenti.
In questi momenti è in corso un incontro fra William Burns, direttore della CIA, David Barnea, capo del Mossad, e Abbas Kamel, la superspia egiziana. Starebbero discutendo in Qatar un’intesa globale: tutti i sequestrati inclusi i soldati per migliaia di detenuti palestinesi. Una tregua che piace anche al presidente USA Joe Biden, ma che rischia di scontrarsi contro la decisione del consiglio di guerra israeliano che lascia spazio solo a 5 giorni in più di cessate il fuoco, dopo lunedì i combattimenti riprenderanno e si espanderanno nelle aree a Sud della Striscia. Infatti, Israele continuerà la lotta, è quanto ha affermato Netanyahu. “Hamas – dice il primo ministro israeliano – ripeterà il massacro commesso contro di noi, il peggiore contro il popolo ebraico dai tempi dell’Olocausto. Se vuoi la pace, distruggi Hamas. Se vuoi sicurezza, distruggi Hamas. Se vuoi un futuro diverso per israeliani, arabi, palestinesi e tutti gli altri, distruggi Hamas”.
Hamas, dopo una disfatta militare, potrebbe essere sconfitto solo dal voto dei palestinesi
L’obiettivo di guerra annunciato da Israele di eliminare Hamas è ambiguo e, alla fine, potrebbe non essere raggiungibile. Israele da solo non può eliminare Hamas. Hamas può essere neutralizzato come minaccia militare, ma per essere sconfitto deve essere sminuito come forza politica solo attraverso un voto del popolo palestinese. Ma un tale voto arriverà solo quando i palestinesi vedranno prospettive credibili per una vita migliore di libertà, dignità e benessere economico.
Dopo la cessazione delle ostilità, sarà necessario un cambio di governance sia nella Cisgiordania occupata che nella Striscia di Gaza. Ciò richiederà riforme politiche importanti per creare un governo palestinese democraticamente eletto e rappresentativo, che parteciperà poi a negoziati rianimati, supervisionati a livello internazionale e questa volta credibili, in grado di raggiungere la pace entro un periodo di tempo concordato.
E qui che dovrà entrare in gioco il forte impegno dei membri del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, in particolare degli Stati Uniti, così come quello dei partner nella regione, sia per finanziare la ricostruzione di Gaza che per gli accordi di sicurezza transitori che dovranno essere messi in atto. Senza questo, una fuga dall’escalation di violenza e un ritorno alla pace saranno impossibili.
I crimini di guerra di Israele e di Hamas
Entrambe le fazioni in guerra sono additate per aver commesso crimini di guerra violando il diritto internazionale umanitario:
Per quanto riguarda Hamas, l’assassinio di 1.200 non combattenti, compresi minori, e il rapimento di 240 ostaggi da usare come scudi umani, i razzi che continuano a essere lanciati contro Israele mettendo a rischio la popolazione civile. è una chiara violazione del diritto internazionale umanitario e rappresenta un crimine di guerra. condannate dalle Nazioni Unite e dalla gran parte della comunità internazionale.
Mentre il governo di destra di Tel Aviv è stato accusato di aver commesso il crimine di punizione collettiva contro Gaza bombardando indiscriminatamente e ripetutamente civili e mettendo in atto un completo assedio con il blocco di tutti i beni di prima necessita, tra cui cibo, acqua, elettricità e forniture mediche (che rimanda alle guerre del Medioevo), e il 13 ottobre ha ordinato una evacuazione forzata di 1,1 milioni di palestinesi dal nord di Gaza. Tale tesi è sostenuta da Nazioni Unite, Croce rossa e la Corte penale internazionale. Mentre il Center for constitutional rights, afferma che Israele sta tentando di commettere, se non attivamente commettendo, un genocidio nei territori palestinesi occupati, e in particolare contro il popolo palestinese nella Striscia di Gaza. A queste accuse si aggiungono altre legate ad azioni precedenti all’escalation del 7 ottobre: pensiamo agli insediamenti illegali degli israeliani nei territori palestinesi (oggi vivono in questi territori oltre 700mila coloni israeliani) occupati del 1967 che violano i diritti umani. Gli stessi insediamenti sono considerati come crimine di guerra in base all’articolo 49 comma 6 della quarta convenzione di Ginevra, ratificata da Israele. Infine, sempre riguardo agli insediamenti, Israele è accusato anche di apartheid nei confronti dei palestinesi.
Sia Israele che Hamas possono essere giudicati dalla Corte penale internazionale. L’ostacolo maggiore è che, a parte il Sudafrica, la Svizzera e il Liechtenstein che hanno chiesto ufficialmente il coinvolgimento della Corte nel guerra tra Hamas e Israele, per il resto della Comunità internazionale c’è un silenzio pesantissimo che di fatto limita l’autorevolezza della Corte.
Views: 23